Luigi Ghirri

The Marazzi Years

1975 - 1985

Luigi Ghirri, The Marazzi Years 1975 - 1985 è una testimonianza unica della collaborazione decennale che ha legato Marazzi a Luigi Ghirri, maestro della fotografia contemporanea. In questo periodo, Ghirri ha creato per l’azienda una serie di opere uniche che rappresentano un legame eccezionale per longevità, profondità ed estetica. “La ceramica ha una storia che si perde nella notte dei tempi. È sempre stata un ‘oggetto’ su cui si vengono a posare altri oggetti: i mobili, i gesti, le immagini, le ombre delle persone che abitano quegli spazi", commenta Ghirri a proposito del suo lavoro con il marchio, "Questo lavoro, al di là di altri significati, è la ricostruzione di alcune stanze della mia memoria”. Luigi Ghirri, The Marazzi Years 1975 - 1985 nasce per dare luce e valorizzare questo patrimonio artistico dal valore inestimabile.

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Approfondimenti

Quel che resta nel crogiòlo

di Cosimo Bizzarri

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Il mondo visto con gli occhi dell’Uomo Pallido

di Francesco Zanot

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Luigi Ghirri, filosofia visiva della poetica fotografica | Telescope. Racconti da lontano #81

di Micol De Pas

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Quel che resta nel crogiòlo

di Cosimo Bizzarri

Per realizzare un esperimento che restituisca risultati accurati, è fondamentale dotarsi degli strumenti adatti. Prendiamo allora un crogiòlo, un recipiente concavo, usato ancora oggi nei laboratori chimici di tutto il mondo per effettuare le analisi. Il materiale in cui è realizzato è solitamente la ceramica, per la sua capacità di mantenere invariate le sue caratteristiche anche ad altissime temperature, quando le sostanze al suo interno abbandonano il proprio stato per mutare, diventare altro da sé.

La ceramica è anche il materiale su cui Filippo Marazzi decide di puntare quando, nel 1935, chiude la drogheria di famiglia e si mette a sfornare piastrelle in una “fabbrica di cartone”, come la ribattezzano i suoi compaesani di Sassuolo, tant’è bizzarro quell’edificio retto da due filari di pioppi, tra la ferrovia e un canale.

L’intuizione è giusta: nella prima metà del Novecento, la ceramica – che per secoli era stato un vezzo decorativo nelle dimore di papi, nobili e sultani – si è fatta largo centimetro dopo centimetro nelle case della borghesia italiana, con la promessa di renderle linde, scintillanti, ultraigieniche. Marazzi è pronta a farle spazio: nel giro di pochi anni, con coraggio e spirito imprenditoriale l’azienda cresce e conquista il mercato italiano. Ma non basta, perché nonostante le apparenze, la ceramica è restia a farsi inquadrare: entrata nei bagni e nelle cucine, presto sconfina nei tinelli, nei corridoi, nelle sale da pranzo, in cerca di una forma che spezzi la sua griglia, di un’identità che vada oltre la sua funzione. Siamo nel dopoguerra: nascono i Pennellati, una collezione dipinta a mano dal pittore e ceramista Venerio Martini, e Triennale, la piastrella “quattro volte curva” progettata da Gio Ponti, architetto e designer di grido, con il collega Rosselli. Sono i primi gorgoglii creativi, segno che la reazione chimica si è avviata, qualcosa sta cambiando.

Ed eccoci: procedendo dal contenitore al contenuto in una sorta di metonimia inversa siamo arrivati alla seconda fase dell’esperimento. L’interno del recipiente di ceramica ora ospita un magma che ribolle, fondendo ingredienti che fino a poco fa sembravano inconciliabili tra di loro. Questa, probabilmente, è l’immagine che balena nella mente di un altro Filippo Marazzi, nipote del fondatore, quando negli anni Ottanta decide di aprire un centro di ricerca e sperimentazione interno all’azienda e chiamarlo proprio crògiolo. Nel decennio precedente l’azienda ha registrato il brevetto internazionale della monocottura, un’innovazione totale che le ha consentito di diventare leader mondiale nel suo settore.

E contemporaneamente ha investito nella ricerca artistica e creativa, collaborando con le grandi firme della moda Biki, Fourquet e Paco Rabanne, con il designer Nino Caruso e con il fotografo Gianni Berengo Gardin, che ha catturato la bellezza della materia, delle vernici, dei nastri trasportatori all’interno della fabbrica.

“Trasformare la materia attraverso la forma, la luce e il colore per renderla viva: questo per Marazzi è fare ceramica”, spiega Filippo Marazzi, “Una vocazione e un impegno che si sono nel tempo estesi a un più ampio disegno di ricerca, in cui l’azienda ha coinvolto artisti, architetti, designer”.

Nella prima metà degli anni Ottanta nascono i “Portfolio Marazzi”, in cui l’azienda chiede a un gruppo di fotografi contemporanei d’interpretare liberamente le collezioni. L’americana Cuchi White immortala un peperone rosso su una piastrella grigia, usando la luce per esaltare la texture e i contrasti della collezione Metropoli. Charles Traub, artista e direttore della Light Gallery di New York, fotografa un uomo in doppiopetto scuro che nasconde il volto dietro una piastrella beige. Luigi Ghirri gioca invece con la geometria degli spazi, sovrapponendo griglie reali o immaginarie a quelle create dalle piastrelle. Le immagini sono stampate in edizioni limitate di 120 esemplari.

Fotografo italiano già noto alla critica internazionale, Ghirri è nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, ma quando aveva tre anni si è trasferito a Braida, una frazione di Sassuolo, in un enorme edificio dove convivevano più famiglie e la maggior parte degli uomini ogni mattina saltava sulla bici per andare a lavorare proprio nelle vicine fabbriche di ceramica. Da adulto, i suoi viaggi e le sue mostre lo portano in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, ma alla fine è sempre in quest’angolo di Emilia che ritorna, tra Modena e Reggio, per mettere ordine nelle idee, concepire nuovi progetti, discutere con gli amici di sempre e guadagnarsi da vivere. Ed è in questo contesto provinciale, dove tutti conoscono tutti, che il fotografo e l’azienda s’incontrano.

Le prime collaborazioni risalgono al 1975: Ghirri entra in azienda in punta di piedi per scattare la ceramica Marazzi. Ma a differenza dei fotografi commerciali, avvezzi a riprodurre i cliché del settore attraverso la tecnica e l’esperienza, Ghirri s’interessa profondamente al suo soggetto e lo interpreta liberamente, secondo la sua poetica. Nelle sue immagini, la piastrella funge ora da sfondo per una rosa, ora da superficie su cui si posano due pastelli, ora da palcoscenico per un pianoforte in miniatura.

La collaborazione prosegue fino al 1985, poi le strade del fotografo e dell’azienda si dividono. Ghirri si dedica agli innumerevoli progetti che ha in testa – tra cui la mostra “Esplorazioni sulla Via Emilia” che avrà luogo nel 1986 a Reggio Emilia, Bologna e Ferrara – e svolge commesse per altri marchi: Ferrari, Bulgari, Costa Crociere. Marazzi continua a rivolgersi alla fotografia come strumento per scardinare le idee precostituite. Nel corso degli anni, coinvolge il fotografo francese John Batho, che con le piastrelle costruisce una passerella che conduce verso il mare, lo statunitense Elliott Erwitt, che scatta la campagna pubblicitaria “Disegniamo il mondo”, e più recentemente Andrea Ferrari e l’inglese Adrian Samson, che offre una nuova lettura di Triennale. La ricerca sull’immagine influenza il lavoro dei grandi artisti e designer cui Marazzi affida negli anni il compito di sperimentare sulla materia: Roger Capron, Amleto Dalla Costa, Original Designers, Saruka Nagasawa, Robert Gligorov. Il risultato sono realizzazioni e collezioni che progressivamente rompono i cliché sulla dimensione, sul colore, sulla decorazione e sulla destinazione delle piastrelle.

Siamo così giunti alla terza fase dell’esperimento: la meno nota e allo stesso tempo la più importante. Una volta avvenuta la fusione delle sostanze, infatti, quel che interessa al chimico non è ciò che è evaporato, ma quel che resta all’interno del crogiòlo. Residui microscopici, scorie che rivelano la purezza del contenuto originario.

Per decenni, le immagini scattate da Ghirri per Marazzi a cavallo degli anni Ottanta sono state conservate in azienda. Molte non sono mai state pubblicate. 

Alcune sono state occasionalmente selezionate per una mostra o stampate sulla copertina di un catalogo. Riemergono oggi, per la prima volta riunite in un volume, a certificare il successo di quella collaborazione tra un’azienda lungimirante e un artista che ha saputo rivolgere il suo sguardo geometrico e geniale, ironico e struggente anche su un oggetto bidimensionale, sottinteso per natura. Non resta, dunque, che analizzare questi residui, registrare i risultati e lasciare che la ceramica si raffreddi. Poi il crogiòlo sarà pronto per un nuovo esperimento.


Il mondo visto con gli occhi dell’Uomo Pallido

di Francesco Zanot

Quando Luigi Ghirri inizia a lavorare per Marazzi, si trova in un momento cruciale della sua carriera artistica. Gli anni Settanta, durante i quali compie sostanzialmente il suo esordio in quest’ambito (comincia a fotografare nel 1969 e le sue prime mostre e pubblicazioni risalgono al 1972), sono quelli dell’approccio concettuale, per cui la fotografia costituisce allo stesso tempo lo strumento (il medium) e uno dei soggetti del suo lavoro. Gli anni Ottanta sono invece segnati dalla ricorrenza del tema del territorio, che esplora non tanto in senso paesaggistico, concentrandosi su questioni geografiche e atmosferiche, ma più estesamente rispetto al suo rapporto con l’uomo, che lo abita, lo modifica, lo usa, lo guarda, lo rappresenta. Nel 1979 il periodo più sperimentale del percorso ghirriano è già consacrato in una monumentale mostra al Palazzo della Pilotta di Parma, con oltre settecento opere e un catalogo firmato dai maggiori critici dell’epoca. Il 1984 è l’anno di Viaggio in Italia, mostra e libro di cui Ghirri è allo stesso tempo curatore e autore (insieme ad altri diciannove fotografi da lui invitati) che costituisce la summa della sua ricerca sulla rappresentazione dei luoghi, ispirando gran parte della fotografia italiana degli anni successivi. L’incarico di Marazzi sta proprio nel mezzo: certamente da un punto di vista cronologico (inizia nel 1975), ma anche per quanto concerne i contenuti, che riguardano questioni sia linguistiche, sia spaziali. Lo scrive tra le righe lo stesso Ghirri nel breve testo che accompagna il suo portfolio: “La ceramica ha una storia che si perde nella notte dei tempi. È sempre stata un ‘oggetto’ su cui si vengono a posare altri oggetti: i mobili, i gesti, le immagini, le ombre delle persone che abitano quegli spazi. Realizzando queste immagini, ho ripensato a tutto questo e ho cercato di ricostruire, con l’aiuto di superfici di diversi colori, nella sovrapposizione degli oggetti e delle immagini, uno spazio che, invece di essere lo spazi o fisico e misurabile di una stanza, fosse l’idea dello spazio mentale di un momento…”. Anziché distaccarsi dal resto della produzione artistica di Ghirri, dunque, le fotografie per Marazzi costituiscono una sua sintesi. Lontanissima dai canoni della promozione pubblicitaria, questa committenza è al contrario un’importante occasione per sperimentare che dimostra l’urgenza assoluta del fotografo emiliano nel mettere alla prova e proseguire un’esplorazione che tocca alcuni punti cruciali del nostro rapporto con il mondo. Sono tre i gesti chiave che, innanzitutto, questa serie di immagini investiga in profondità, tutti collegati tra loro. Dal generale al particolare: vedere, rappresentare, fotografare.

Vedere. È il più antico antenato della fotografia: prima si vede, poi si fotografa. 

È la base di tutto, il pilastro di questa costruzione. Non solo, perché ciascuna immagine fotografica non è semplicemente una traccia del soggetto che si è trovato davanti all’obiettivo, ma piuttosto dello sguardo del fotografo che lo ha osservato prima di noi. In una fotografia vediamo ciò che è già stato visto nel modo in cui è stato visto. Quando Ghirri posiziona un paio occhiali al centro di un’immagine che realizza per questa serie, sta fotografando il suo sguardo. 

Come il personaggio dell’Uomo Pallido nel film Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro, il fotografo si toglie gli occhi e li mette davanti a sé prima di indossarli nuovamente. C’è di più: le lenti degli occhiali corrispondono all’obiettivo della macchina fotografica. In un’altra immagine si vedono due teste scolpite (meglio: le loro riproduzioni) rivolte una verso l’altra. Lo spazio che le separa, bordato di nero, individua il loro ipotetico campo visivo. Stiamo guardando due volti che guardano. Sono identici. Stiamo guardando il loro sguardo.

Rappresentare. È il passo successivo. Il lavoro di Ghirri si fonda su una storia, che non è soltanto quella della fotografia, ma più ampiamente l’intera storia dell’arte. Ghirri rivolge il proprio interesse al presente sulla base della conoscenza del passato. I riferimenti sono molteplici, a partire dalle teste scolpite sopracitate. Una breve sequenza di immagini è dedicata a una serie di studi prospettici che rimanda agli albori della camera oscura. Un’altra fotografia mostra riflesso in uno specchio il dipinto di una natura morta, proprio lo stesso genere che viene qui ripreso attraverso una serie di opere di morandiana memoria: stessi colori pastello, stessa aria intorno ai soggetti, che non risultano compressi nell’inquadratura, stessa predilezione per un senso generale di densissima semplicità (non è un caso se tra il 1989 e il 1990 Ghirri conduce un approfondito studio sull’atelier di Giorgio Morandi). Poi c’è una coppia di immagini con un uovo, inevitabile riferimento alla Pala di Brera di Piero della Francesca, che proprio di geometria e prospettiva fu insigne studioso. È una questione di perfezione, ma anche di fantasia. Le uova di Ghirri posano su un cucchiaio e un bicchiere: entrambi disegnati.

Fotografare. In queste immagini i richiami all’operazione fotografica sono innumerevoli. Sulla scorta dell’esperienza concettuale, Ghirri articola un complesso discorso teorico che mette al centro il proprio mezzo espressivo. Ghirri fotografa la fotografia. Lo fa letteralmente, quando punta l’obiettivo verso una vecchia stampa in bianco e nero con il ritratto di un bambino. Davanti mette addirittura una macchina fotografica in miniatura (la fotografia è di per sé una forma di miniaturizzazione del mondo, che possiamo tenere nel cassetto sotto forma di immagine) e una mano che mima il gesto di premere il pulsante di scatto. C’è tutto: il fotografo, la macchina fotografica e la fotografia. Anche le fotografie con un arcobaleno (ovviamente ricostruito) e un pezzo di carta con la scritta ‘colori’ sono omaggi a questo linguaggio: Ghirri è tra i principali pionieri della fotografia a colori su scala internazionale. Quando la quasi totalità dei suoi colleghi descrive un universo completamente sommerso nel bianco e nero, egli risolve il problema alla radice: “Fotografo a colori, perché il mondo reale non è in bianco e nero e perché sono state inventate le pellicole e le carte per la fotografia a colori”. Lo specchio, che con la fotografia mantiene un congenito rapporto di continuità (Holmes definiva queste immagini come uno “specchio dotato di memoria” già nel 1840), compare infine diverse volte. C’è un’immagine in cui è tra le mani di una donna, rivolto verso l’obiettivo, soltanto che anziché riflettere la figura del fotografo, mostra una piastrella. La fotografia è questo: un impasto inestricabile di realtà e illusione.

C’è un ultimo termine che, a questo punto, si deve aggiungere ai precedenti: abitare. Non rientra nel precedente elenco, ma sta alla base del tema dei luoghi di cui si è accennato più sopra. Gli spazi, qui, sono la ceramica. Il colore delle piastrelle e la loro superficie costituiscono il territorio entro cui si svolge l’intera opera di Ghirri. Formano il palcoscenico su cui recitano i suoi soggetti. Come il teatro, anche la fotografia è interpretazione e trasformazione. Paradossalmente, senza mancare di realismo. Nelle mani di Ghirri, inesorabile esploratore degli infiniti travestimenti della realtà, un oggetto può essere un ambiente.


Luigi Ghirri, filosofia visiva della poetica fotografica | Telescope. Racconti da lontano #81

di Micol De Pas

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